il nostro allievo Andrea Sodano in copertina su spit 17 climbing magazine

di Francesco Galasso

 

Andrea Sodano da poco ha compiuto i 20 anni, da qualche mese si e’ trasferito in Olanda per Studio e continua a scalare pensando alla sua terra e ai suoi maestri. Da pochi anni ha iniziato a scalare e apprendere l’arte del climbing con me e con gli eventi di Direzione Verticale…ma si sta facendo avanti nel mondo del Climbing facendo sentire la sua voce.

Spit climbing Magazine di questo bimestre (marzo/aprile 2020) ha in copertina ( e non solo!) proprio il nostro giovane Allievo che si racconta e racconta del nostro lavoro in un articolo di ben 15 pagine. Porta sempre con se’ riconoscenza per Direzione Verticale, Francesco Galasso e gli altri maestri che si sono avvicendati per la crescita “arrampicatoria” di questo giovane allievo.  Si parla di ricordi impressioni e luoghi del cuore per il climbing, attraverso le belle foto del fotografo specializzato Francesco Guerra.

Posti come Positano, Monte Faito, del lavoro che stiamo svolgendo da anni di richiodatura, rivalutazione e censimento su direzioneverticale.it/mappe , di come l’arrampicata e’ diventata parte integrante di queste aree di arrampicata in Costiera Amalfitana e in Campania.

Pensare che e’ passato poco piu’ di un anno da quando con il nostro video contributo, apparivamo insieme su EpicTV Italia, Andrea poco piu’ di un ragazzo (aveva 17 anni in questo video girato dietro la sua casa di villeggiatura) provava la via chiodata da me ad hoc con l’obiettivo di aumentare il suo livello e portarlo sull’alta difficolta’. Di seguito il video.  
di Seguito invece nel riquadrio #positanoclimbing l’articolo di cui si parla, per chi volesse leggerlo: spit (il giornale dell’arrampicata) e’ in edicola e qui

 

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articolo di seguito:

La mia passione per la roccia è qualcosa di molto personale, che ha avuto inizio al mare più che in montagna. Da qundo avevo poco più di quattro anni ho goduto di una libertà di cui un bambino cresciuto in città difficilmente può fare esperienza ma. Per fortuna, la mia famiglia possedeva una casa di villeggiatura sull’isola d’Ischia, dove mi trasferivo ogni anno per passare l’estate con mia madre, mentre mio padre restava in città per lavoro.
Poter girare da solo per i villaggi di pescatori, sedermi accanto a loro, senza che nessuno facesse domande del tipo “dov’è tua madre?” fu, penso, uno stimolo fondamentale per lasciare intatto quel desiderio di scoperta che viene spesso mortificato nei bambini, per ragioni più e meno condivisibili.
Sedere accanto ai pescatori, presto si trasformò nel saltare letteralmente tra gli scogli con una canna da pesca fissa in mano, alta tre volte me e così cercare costantemente le conche migliori e più interessanti. Più prendevo fiducia nelle gambe e nei piedi (rigorosamente scalzi o avvolti in un paio di infradito), più osavo spingermi oltre, fino, un giorno, mi ricordo, a comiciare a cercare un passaggio attorno al Castello Aragonese, che stanzia su un impervio isolotto di tufo e roccia vulcanica a un centinaio di metri dall’isola principale, alla quale è colleganto con un. ponte. Avevo circa sei anni ma ricordo che iniziai a trovare punti per pescare sempre che apparivano sempre più interessanti e così continuai a spingermi oltre, come se la curiosità per quello che c’era al di là il prossimo costone di roccia prevalesse sulla premura di avere una via di ritorno sicura.
Mi resi presto conto che non sarei potuto rimanere sempre a distanza ideale dal mare e così iniziai ad aggirare le parti più impervie dall’alto. Man mano che salivo fui così catturato dal desiderio di continuare, che presto la paura di volare giù per diverse decine di metri fu superata dalla sensazione di starmi muovendo leggero su quella roccia friabile e pastosa, finchè non scapolai le mura del castello, che, senza rendermene conto, avevo appena assediato…
Come spesso cerco di sottolineare, non sono, solitamente, le cose difficili a far male, quanto quelle stupide. Così non ci volle molto perchè a otto anni (estate 2008), impeganto in una guerra di palle di sabbia contro una spiaggia rivale (credo ci fossero delle carte di Yugi-Oh in palio) corsi sul bagnasciuga e senza accorgermene inciampai in uno scoglio che mi causò una grave frattura dell’omero sinistro che mi tenne una settimana in ospedale. Ingessato com’ero il mare non sembrava l’opzione migliore, anche perchè, nonostante l’attrazione crescente per la roccia il mio mondo allora era l’acqua, dove passavo innumerevoli ore a fare snorkeling senza mai uscire.
Andai, di conseguenza, in villeggiatura dai miei nonni in un’altra casa, in un posto molto diverso, ovvero, il Mote Faito, la montagna più alta della Costiera Amalfitana.
Il ruolo che questo luogo avrebbe giocato nel mio percorso si sarebbe meglio rivelato solo anni dopo.
Sui trekking soleggiati, a picco sulla Costiera, imparai a conoscere un diverso tipo di roccia. Quella che si mescola alla terra e all’erba, che si sbriciola e frana e non tollera passi falsi.
Eravamo e siamo ancora oggi un gruppo di ragazzi e ragazze che condividono il fatto di avere lì una casa di villeggiatura e un rapporto personale e speciale con questa montagna. Abbiamo tutti età e attitudini diverse, eppure per quelle due o tre settimane l’anno condividiamo momenti ed esperienze inestimabili. Grazie infatti a due di questi ragazzi, che oggi sono due dei miei migliori amici, un giorno, senza alcuna idea di quello che mi aspettava scendemmo alle “grotte” come le cliamavno all’epoca, dove, intorno a uno strapiombo così proibitivo che non avrei sognato di poter scalare per aancora molti anni, “montarono” con tre o quattro moschettoni a ghiera e non, una linea di spit che già allora avranno avuto vent’anni… Scalavamo scalzi e proteggendoci a stento. Ovviamente, quando si hanno nove anni, averne dodici significa avere ormai un’esperienza di vita non indifferente e quindi essere degni di fiducia… E così continuammo tutta l’estate del 2009. Quando tornai in quella falesia anni dopo, quelle piastrine mi si polverizzarono letteralmente in mano.
Dopo le elementari, la scuola si fece una componente sempre più invadente in quel mondo e le mie abitudini cambiarono per soddisfarne i ritmi, che mi portarono sempre più lontano dal mare, mentre i weekend in montagna si fecero sempre più presenti.
Era strano come una parte di me volesse a tutti i costi diventare parte di quel meccanismo, ma sentendo di non riuscirci mai davvero, finivo per sentirmi continuamente fuori posto. Non scherzo quando dico che per un’po divenni la caricatura di me stesso.
Le vie di fuga che trovavo erano giudicate “bizzarre” o “inopportune” o “strambe” dalla maggior parte dei professori, così come dai compagni di classe. Da un lato vi era la scienza, dall’altro l’avventura. Entrambe hanno il grande potere di conferire un diverso punto di vista sul mondo.
In secondo liceo, nel tentativo di fare bouldering su un monumento vicino la mia scuola (ero a tanto così dal diventare un vandalo professionista), nel tentativo di fare un lancio, la mia mano si posò su una mattonella scheggiata e mi ritrovai senza un brandello dell’ultima falange dell’indice destro, che ha lasciato ancora una cicatrice.
Ci fu anche la volta che decidemmo di scalare senza protezioni un crinale roccioso e scosceso del Monte Faito e campeggiammo per la notte in un punto così esposto al vento che a un certo punto eravamo sicurissimi che la tenda avrebbe preso il volo come un parapendio con noi dentro, ma la cannabis rese quell’esperienza così allucinante che ogni preoccupazione per ciò che avveniva intorno sembrò superflua in quel momento.
All’epoca non vedevo nessuna di queste esperienze come parte di un quadro più ampio. Fu quando iniziai a leggere i libri di Robert Peroni, e delle sue avventure in quel mondo fantastico che è la Groenlandia, che iniziai a sognare imprese alpinistiche in un mondo che non sembrava poi così piccolo e angusto, dopo tutto.
Vedendomi sempre più serio e determinato, a quel punto, mio iniziò a raccontarmi di Carlo, che avevo conosciuto quando avevo quattro anni e di cui ricordavo poco, se non che era un gigante e, dalle storie di Emilio (mio zio) che quando non era impegnato nel soccorso alpino era un osteopata formidabile.
Affascinato da quei racconti di scalate del Gran Zebrù e allenamenti massacranti, decisi così di andarlo a trovare a Isolaccia, in Valtellina, dove, nonostante gli anni passati, mi ritrovai davanti un gigante di un metro e novantacinque. Ci volle molto poco perchè mi rendessi conto che Carlo aveva un modo quantomeno unico di esprimere la sua umanità e all’inizio, devo dire, ne fui quasi sopraffatto.
Trovarsi davanti una persona che senza alcun filtro ti dice sempre e comunque quello che pensa, a cui non importa assolutamente nulla dell’apparire burbero e che non serva alcun tipo di rancore, era qualcosa per cui non ero preparato. Inutile dire che non ci volle molto perchè diventasse presto il mio maestro.
Gli allenamenti con Carlo sono fisicamente quanto mentalmente stremanti. Mi raccontava di quando scalava con Manolo (il Mauri) e della ricerca dell’eleganza nel gesto, invitandomi a non ambire al grado, quanto all’armonia nel movimento. Effettivamente sembrava lui le avesse viste tutte, considerando il genere di allenamenti logoranti a cui si era sottoposto da ragazzo, nell’arrampicata come nelle arti marziali.
Non disdegna affatto la vela, il kayak, o qualsiasi cosa lo metta in contatto con se stesso.
E’ una persona dall’emotività prorompente, a cui ci vuole tempo ad abituarsi, ma che trasmette un senso di leggerezza assoluto. Quando mi portò per la prima volta sulla Cima Piazzi e raggiungemmo la vetta, durante la discesa si commosse.
Grazie a lui ho imparato la venerazione dell’attrezzatura, a cui è attaccata la mia vita e il rispetto per le procedure di sicurezza che mi permettono di tornare tutto intero a casa e fare piani a lungo termine, ma soprattutto, grazie a quegli allenamenti, che si ripetono almeno una volta l’anno, ho imparato a godere di me stesso attraverso l’arrampicata.
L’essere cresciuto guardando a eroi come Manolo, o Robert Peroni, che da tempo ormai non sono nel focus dei media, penso mi abbia dato la libertà di immaginarli in modo anche un’po astratto e l’ispirazione necessaria per sviluppare una mia idea su quello che ricercavo e che avrei voluto perseguire.
Nonostante Carlo abbia giocato un ruolo fondamentale nel consolidare la mia formazione, l’imput per entrare effettivamente nel mondo della roccia mi fu dato grazie a Direzione Verticale, un’associazione che si occupa dello sviluppo e della chiodatura delle falesie della Costiera Amalfitana, gestita dal mio amico Francesco Galasso. Facendo nel 2016 un corso con lui sono passato dal rischiare ogni volta la vita all’avere una cognizione di causa in quello che facevo.
Rimasi subito colpito da come l’approccio di Francesco apparisse simbiotico con l’ambiente che lo circondava. Ebbi modo di apprezzarlo a pieno quando a fine estate del 2017 mi propose di aiutarlo a chiodare la falesia del Monte Faito. Lì per lì non ricordavo nemmeno a quale si riferisse, tanto tempo era passato.
La vista di quegli strapiombi giocò un ruolo fondamentale nel farmi capire quanto oltre mi sarei potuto spingere. I pomeriggi passati la sotto con una moca su un fornello da campo, a mangiare castagne del prete (castagne affumicate tipiche della Costiera Amalfitana) e a discutere di linee, dal mio punto di vista assolutamente futuristiche, che grazie alla sua esperienza prendevano forma concreta e ci davano tante, ma proprio tante bastonate, resero quell’anno profondamente bello ed introspettivo.
Mi fu presto chiaro che per raggiungere i miei obbiettivi avrei avuto bisogno di qualcosa di maggiore costanza negli allenamenti, e cercai così una palestra.
Le possibilità sarebbero state una piccolissima sala boulder in un centro sociale nel cuore di Napoli, dove i ragazzi del quartiere hanno la possibilità di approcciare gratuitamente questo sport, oppure una palestra che dista venti minuti di macchina o un ora e mezza con i mezzi pubblici.
La prima, purtroppo era quasi sempre (comprensibilmente) molto affollata e mancava di qualsivoglia attrezzatura per l’allenamento specifico. Era strano quanto poco ancora conoscessi questo mondo, eppure quanto in alto (forse per ingenuità) avessi posto i miei obbiettivi.
La scelta ricadde quindi sulla seconda opzione e passai l’ultimo anno di scuola andando tre volte alla settimana a Monteruscello, dove con il mio coach Simone Bonaccia iniziai un allenamento personale e molto duro che mi permise di entrare in contatto con il mondo delle gare e in seguito l’altra faccia della comunità di arrampicata campana.
Conobbi ragazzi straordinari, come Giacomo Ponticelli, che è entrato in questo mondo in modo molto attraverso la plastica, e ha trovato nel bouldering la sua forma di espressione, diventando sempre più forte e dedicandosi con estrema serietà a migliorarsi. Con lui ho consolidato un rapporto di amicizia e rivalità quasi fraterno e vederlo progredire è motivo di grandissima ispirazione e mi da speranza per il futuro del climbing in Campania.
Costruii un rapporto di amicizia ed estrema fiducia nei confronti di Simone, che con grandissima passione e dedizione si impegnava ogni giorno a sviluppare un allenamento differente per me.
Ero affamato di conoscenza su come migliorare la mia arrampicata e (nella mia testa) me stesso. Fame, freddo e fatica, mi ripetevo.
Nondimeno, avevo pur sempre diciassette anni ed ero a tutti gli effetti una testa di cazzo… La parola riposo era inconcepibile e la dieta autoprescritta un modo di canalizzare l’allenamento e renderlo fruttuoso, riducendo sempre più le calorie. Diventai sempre più magro e presto mi ritrovai ad essere alto un metro e ottantacinque e pesare 65 kg. Più volte Simone mi aveva detto che se avessi continuato in quel modo lui non sarebbe più stato disposto ad allenarmi. Un giorno, mi ricordo, mi ricordo, mentre camminavo per strada, mi sentii mancare le forze e persi i sensi.
Immaginare che una cosa del genere mi potesse accadere nel mezzo di una via fu la scintilla che mi fece passare dal massacrare il mio corpo al curarlo. Iniziai a lavorare con un nutrizionista sportivo, un osteopata, per aiutarmi a ricercare la massima efficienza ed evitare di farmi male, e Carlo che combinava le due cose, ma che purtroppo viveva troppo lontano per poterci vedere con regolarità.
La falesia fu di fondamentale importanza per mantenermi motivato durante gli allenamenti e trasformarli nella ricerca di qualcosa di più grande e personale del grado.
Mi permise di capire che se lo avessi fatto sarebbe stato fatto per me e nessun altro.

2)
L’arrampicata in Costiera Amalfitana è secondo me qualcosa che va oltre la ricerca del grado. Piuttosto è un esperienza che coinvolge i sensi e richiama a uno stato d’animo diverso per ogni falesia.
Di certo, tuttavia, chi ricerca la difficoltà e la prestazione atletica non deve andare lontano. Ci sono tutt’oggi svariati progetti inscalati che guardano alle future generazioni per essere provati.
La domanda che mi è spesso sorta spontanea è: come mai non ci sono atleti fortissimi campani, a cui i ragazzini che si allenano con Simone possano guardare e da cui possano imparare?
Le ragioni più plausibili che ho trovato sono che fino a non molti anni fa, a parlare di arrampicata a Napoli saranno state due persone, tre a dir tanto.
Tuttavia, il tempo perchè questo sport potesse evolversi in questa regione c’è stato, eppure, al momento, Napoli intesa come città non conta neanche una palestra di arrampicata.
Durante i miei allenamenti con Simone non ci volle molto perchè mi rendessi conto che la scena campana è profondamente divisa.
Da un lato Direzione Verticale, dall’altro la Free Climbing Napoli, associazione gestita da Simone che cura la crescita di un team di giovani atleti, che l’anno scorso sono arrivati a gareggiare al Rock Master.
Su un altro fronte ancora vi è la Climbing House, una palestra in provincia di Salerno, dove dei ragazzi molto forti continuano a migliorarsi scalando gradi sempre più impegnativi.
Conosco poco la scena di arrampicata a Salerno e il lavoro di Oreste Bottiglieri, una delle prime guide alpine a chiodare le falesie campane. E’ tuttavia chiaro come, almeno nel panorama di Napoli manchi un senso di unità e di interesse comune nel valorizzare questi luoghi. Per quanto non sia mia intenzione suggerire che questo manchi nei singoli, è mia opinione e mi rattrista mi rattrista constatare come la convivenza conflittuale tra DirezioneVerticale e Free Climbing Napoli, due associazioni che curano l’arrampicata in ambiti molto diversi l’uno dall’altro, sia a mio parere assai deleterio per lo sviluppo di una comunità consolidata che possa effettivamente valorizzare il territorio.
In fondo, la roccia diventa una via se e quando c’è qualcuno che la scala, e a l momento qui c’è tantissima roccia, ma pochi scalatori.
I ragazzi che oggi si allenano e approcciano l’arrampicata in Campania hanno bisogno di mentori e modelli di riferimento. Personalmente mi sono sempre tenuto lontano quanto più mi è stato possibile dal clima conflittuale tra le associazioni e soprattutto tra le persone e ho cercato di costruire buoni rapporti con tutti, malgrado i difetti e le imperfezioni che sono parte dell’essere umani e così, sento di aver potuto prendere il meglio da entrambe le parti.
Impossibile non menzionare il lavoro di Cristiano Bacci (che purtroppo non ho il piacere di conoscere personalmente), che si è trasferito a Positano, un gioiello della Costiera Amalfitana, diversi anni fa e lavorando instancabilmente con Francesco Galasso e il tristemente scomparso Adriano Trombetta, ha chiodato le falesie di Positano, creando un assoluto paradiso di roccia e mare.
Cristiano e sua moglie gestiscono oggi il rifugio La Selva, dove promuove un modello di turismo sostenibile incentrato sull’apprezzamento dell’atmosfera di Positano, di cui elemento centrale è l’arrampicata.
Volendo fare un paragone azzardato ma esplicativo, la meravigliosa roccia di Flatanger (uno dei posti più belli e suggestivi che abbia mai visitato) è conosciuta al mondo poichè si è potuta esprimere attraverso gli atleti che vi si sono mossi sopra, da Adam Ondra a Seb Bouin. Nel tempo passato in Norvegia al Flatanger Climbing Camping di Berit Hestenes e Olav Strom mi sono reso conto di come convivere in quella piccola casa con ragazzi di tutte le età e nazionalità e alcuni dei migliori climber di sempre creasse un senso di profonda ispirazione reciproca e condivisione piuttosto che di competizione. Eravamo tutti lì per scalare e avevamo tutti un progetto per noi importante, qualunque fosse il nostro grado, era questo che contava.
Trovo che costruire una comunità di arrampicata sana e consistente sia possibile solo in conseguenza di un impegno da parte delle associazioni a creare unità tra le persone, piuttosto che a curare ognuno i propri interessi, che, in fin dei conti, non possono mai prescindere dalla presenza di una scena consolidata e in crescita.
E’ anche vero che forse, data la spettacolare varietà di scenari e sensazioni presenti in costiera è difficile definire un “immagine pubblica” da trasmettere, visto quanto radicalmente il panorama e lo stile cambiano nel raggio di pochissimi chilometri, ragione in più per cui serve informazione e valorizzazione, non solo per passaparola.

3)
L’importanza che il territorio gioca nella formazione di un climber è qualcosa che riscopro ogni giorno, con maggiore convinzione. E’ infatti interessantissimo osservare come persone cresciute in scenari completamente diversi l’uno dall’altro abbiano sviluppato uno stile di arrampicata non solo completamente diverso, ma che trova spesso e volentieri difficoltà ad adattarsi a un a primo impatto a scenari differenti.
Per opportunamente spiegare il mio punto di vista vorrei prima fare una riflessione.

L’ambizione del climber non è, secondo mia modesta opinione dissimile da quella di molte altre figure creative, quale che sia il poeta o il pittore. Questi, infatti, tendono a vivere in una fragile combinazione di un mondo astratto con una componente materiale il cui vincolo apparentemente imprescindibile definisce la condizione umana. Allora l’arte diventa un modo di dare eleganza all’espressione del disagio conseguente al vivere in questo precario equilibrio.
La relazione che un climber tende a sviluppare con la roccia è secondo me un breve momento in cui un insieme di prese scolpite dal tempo su un oceano di roccia, passando attraverso il processo creativo di una persona diventano una linea. Successivamente, nel momento in cui si staccano i piedi da terra, il corpo e i movimenti diventano un espressione della roccia stessa. Quelle prese non avrebbero nessun motivo di essere intese come collegate, sennonché quando vengono interpretate in dimensione strettamente umana e vi viene associato un legame. In questo senso è, secondo me, possibile affermare che la linea vive attraverso lo scalatore (e viceversa).
Sotto questa chiave interpretativa diventa dunque chiaro come avere un approccio filosofico e personale alla roccia diventi un elemento fondamentale per definire il proprio percorso.
Ben diverso può apparire l’approccio di chiambisce alla prestazione sull’artificiale e all’agonismo e non è insolito osservare reazioni fortemente emotive dopo il conseguimento (positivo o negativo) di un risultato sportivo, così ci si chiede se valga effettivamente la pena indulgere in tanta emotività per qualcosa di così effimero e, in fondo, individualistico.
Secondo il mio punto di vista, tuttavia, in questo caso questa è da intendersi come una manifestazione del lavoro, della sofferenza patita nei mesi o negli anni addietro, della devozione verso le persone che hanno sostenuto questo percorso e, perchè no, dell’orgoglio nell’aver raggiunto un traguardo personale e aver materializzato qualcosa che prima esisteva solo come idea astratta. Anche in questo caso, un percorso del tutto personale prende forma per un breve momento e diventa visibile ad occhio altrui. L’arrampicata è, per come io la vivo, un modo di renderlo tangibile, e toccare con mano qualcosa di intimo e astratto.

Sono cresciuto in un ambiente fatto di strade, macchine, qualche albero ogni tanto e mare. La roccia (verticale) c’era ma era come nascosta schiere su schiere di palazzi. Anche quando andavo in montagna, all’inizio in Abruzzo, per me questa era un mare di colline affusolate che si amalgamavano in inverno sotto un manto nevoso che univa il paesaggio.
Approcciare l’arrampicata all’inizio era qualcosa di completamente distaccato dall’aspetto sportivo, quanto piuttosto una risposta istintiva al paesaggio e un modo di materializzare quei sogni di ragazzino che, in realtà, sono ancora ben presenti, ma che ora osservo con maggiore consapevolezza e un’ po meno avventatezza.
E’ interessante vedere come la cittadina dove vivo ora, che conta duecentomila abitanti, di cui un settanta per cento studenti, e neanche l’ombra di una collina, conti una percentuale di praticanti di arrampicata assai maggiore di Napoli, una metropoli di due milioni di persone, circondata da montagne e falesie.
Le ragioni che mi sono dato sono varie: innanzi tutto, poter dedicare tempo a un’attività apparentemente senza alcuno scopo utile, in un contesto di orari rigidi, impegi e responsabilità verso altri, richiede una condizione di privilegio che non è affatto scontata.
Secondariamente le dimensioni dell’ambiente urbano: si potrebbe facilmente sostenere che una grande città sia tendenzialmente più propensa a mettere a disposizione palestre indoor e sale bouldering, diventando questa, automaticamente, un ambiente idoneo alla crescita di una scena di arrampicata. Questo può essere vero nel momento in cui l’ambiente naturale non presenta caratteristiche adatte a supportare questo tipo di attività, ma d’altra parte l’arrampicata indoor, per quanto possa sicuramente indurre un senso di curiosità verso l’outdoor, spesso induca a considerare quest’ultimo come qualcosa di lontano, scomodo e difficile, che porta alla creazione di una comfort zone limitata alla plastica, dove le regole appaiono molto meno imperative e la sicurezza una garanzia. La percezione è che non ci sia il rischio che si “stacchi qualcosa” o che venga a piovere, si può camminare in giro con le scarpette ai piedi e soprattutto non c’è bisogno di “osare” scalando da primo, poichè la corda è sempre lì, montata e pronta per scalare in top rope e non ci si disturba troppo a chiedesi come vi sia arrivata o chi ce l’abbia portata.
Ho sentito un numero indefinito di volte persone, recitare “si, dai, ora scalo in palestra e poi quando sarò abbastanza bravo/a mi piacerebbe provare fuori”, che si distanzia completamente da quello che è stato il mio, e sottolineo, il mio personale approccio all’arrampicata, che vede la roccia come il campo di gioco e la palestra e l’indoor in generale come un modo di migliorarsi quando una via diventa troppo dura e richiede un allenamento specifico. Chiaramente nel momento in cui ci si inizia a porre obbiettivi sempre più elevati questo diventa una presenza sempre più consistente e a quel punto si crea un esperienza personale anche con lo spazio di allenamento, ma senza mai prescindere dall’avere un occhio fisso sulla roccia.
D’altro canto c’è da chiedersi come sia possibile che sia stato un ragazzo veneto a sviluppare l’arrampicata a Positano, quando gli abitanti che vi sono cresciuti e sono stati sempre circondati da quelle spettacolari falesie, per quanto ne possiamo sapere non hanno mai effettivamente preso seriamente in considerazione l’idea di scalare quella roccia, che non era altro che un confine di inutilità e pericolo, e un modo molto efficace di fare una rovinosa caduta, piuttosto che una salita.
Ed è dunque interessante, per me notare come in Olanda, i profili sui social Network siano spesso costellati di fotogtafie ritratte in scenari naturalistici sensazionali che, nella maggior parte dei casi, tendono ad avere protagonista una montagna. Come se questo territorio, così piatto e comodo facesse scaturire nelle persone che lo abitano un senso di necessaria curiosità verso un mondo diverso.
E’ dunque corretto, secondo me, sostenere che l’ambiente cirostante influenza drammaticamente l’avvicinarsi di una persona all’arrampicata e più precisamente a qualsiasi forma di contatto con la natura, ma questo è dovuto tanto allo scenario naturalistico quanto alle persone che lo vivono e che fanno “vivere” la roccia altrimenti muta e nessuno dei due elementi può prescindere dall’altro.
Quanto il territorio incide su di me personalmente: posso dire che a parte il desiderio di vivere nei luoghi che amo, facendo ciò che mi rende felice, oggi vivo l’essere lontano dalla roccia come un modo di avere un altro punto di vista su me stesso ed essere un atleta migliore, fin quando sarà questo che vorrò fare della mia vita, come anche quando arrampico, nel momento in cui stacco i piedi da terra assumo una prospettiva sul mondo interamente personale ed effimera, solo che in questo caso è a più grandi linee.
Tuttavia, non penso sarei a fare questi ragionamenti se un giorno dei ragazzini che sentivano la città troppo stretta non avessero deciso, senza alcuna nozione di alpinismo, di cercare altro ed invitarmi ad andare con loro in verticale.

4:
Per spiegarvi cosa vuol dire per me vivere lontano dalla roccia in questo momento della mia vita, mi è necessario accenare un paio di cose sull’Olanda.
E’ quasi un clichè che quando si chiede a un ragazzo italiano dove gli piacerebbe andare a fare un viaggio, assai comune è la risposta “ad Amsterdam”. Che sia per i colori sgargianti dei tulipani, dei quadri di Van Gogh o quelli della città resi più intensi dalla cannabis, qualora un italiano, camminando per le strade del centro di Amsterdam sentisse nostalgia della sua lingua madre, con tutta probabilità questa non durerebbe a lungo.
La sensazione di potersi autodeterminare in un constesto urbano, di percepire un senso di efficienza nelle infrastrutture e nel sistema, genera, dal mio punto di vista un senso di appagamento difficilmente ritrovabile in Italia.
Poter essere contenti dello sforzo impiegato nel portare a termine un lavoro e percepire uno stipendio gratificante sembrano argomenti così distanti quando si è ragazzini, ma basta un giorno di fatica per renderli incredibilmente tangibili.
Nulla di strano in tutto ciò. Nella civiltà occidentale moderna, lasciare posto all’imprevedibilità è considerato un lusso per pochi, i quali, anche qualora il destino gli giocasse un brutto tiro, avrebbero comunque le spalle coperte. E’ quasi terrificante, infatti, pensare alla varietà di imprevisti che affrontiamo quotidianamente in Italia, dovuti alle lacune in un sistema che è poi lo stesso per cui usciamo di casa e andiamo a lavorare. Da un autobus che non passa a un errore burocratico, non è assurdo affermare che la quantità di lavoro “extra” che la maggior parte degli italiani devono fare per rispettare un’agenda è qualcosa di fondamentalmente inconcepibile per molti olandesi i quali, godendo di un sistema che mette a disposizione servizi efficienti (almeno a breve termine) possono guadare ai propri impegni per la giornata come a un elenco attendibile di ciò che succederà, lasciando molto poco spazio all’imprevedibilità.
Durante il mio percorso di studi in fisica alla University of Groningen, dove la maggior parte dei miei colleghi hanno origini olandesi, mi è capitato in più occasioni di essere particolarmente entusiasta riguardo un argomento quando questo non sembrava suscitare alcuna eccitazione particolare nei miei compagni di corso, se non per un breve momento, per poi tornare immediatamente ad essere focalizzati sul compito assegnato per il giorno dopo, che sarà pronto quando sarà stato eseguito in modo sufficientemente corretto, sulla base solo ed esclusivamente degli argomenti descritti dal libro di testo e discussi in classe.
Ora, questo tipo di approccio, comprensibile e condivisibile in un liceo, eppure anche in quel caso, secondo me povero di entusiasmo, non ritengo sia ciò che ci si aspetterebbe da uno studente unibversitario che sceglie un campo dove, per definizione è necessario spingersi oltre i liniti.
La ragione più semplice per cui questo accade è che non se ne sente il bisogno e non la si vede come una priorità. Come col cibo: i piatti della tradizione italiana, che costituiscono buona parte della spina dorsale della gastronomia moderna globale nascono, nella stragrande maggioranza dei casi, da condizioni di disagio e povertà, nelle quali si mira al recupero e dal’esaltazione di materie prime, a un primo impatto per nulla sensuali o appetitose, ma che rappresentano l’unica opzione in condizioni di povertà, dalle lasagne emiliane, alla pastiera napoletana, alla ribollita toscana.
Tuttavia, quando ogni necessità appare soddisfatta e il mondo si adatta perfettamente alla dimensione umana, questo sembrerà immediatamente troppo angusto. Allora le soluzioni sono tre: o ci si adatta, o si cambia aria, o si cambia il mondo.
Per quello che ho avuto modo di osservare, lo stile di vita del cittadino olandese abbraccia tendenzialmente la prima opzione. E’ un modo di vivere “noioso e confortevole” nel quale aleggia l’illusione che tutto si possa fare, basti volerlo, quando in realtà si fa effettivamente molto poco.
D’altra parte, però, sento di essere arrivato in questo paese mosso dalla voglia di fare e di autodeterminarmi, ed effettivamente, non doversi preoccupare troppo degli imprevisti lascia molto tempo a disposizione, che in questo momento non ho riempito completamente, e quindi investo semplicemente vivendo e imparando quanto più possibile.
Ciò che davvero mi manca sono le sensazioni e vivere il mondo attraverso di esse. Creare un esperienza intima e soggettiva con le imperfezioni del mondo: dallo scalare una muro rovinato dal tempo all’assaggiare una mela maturata più del previsto. E certamente, scalare linee nella roccia sempre diverse e perfettamente imperfette, vivendo in modo unico e personale il mio percorso. Non è impossibile. E’ solo molto più difficile, secondo me.
Ad essere ancor più onesto, sono anche se in un secondo momento ho avvolto nella razionalità di un percorso accademico le mie motivazioni, l’ambizione di vivere in questo paese è stata spinta da motivazioni strettamente personali, che nulla hanno a che vedere con la razionalità, e dal mio desiderio di viverle a pieno ed è questo stesso desiderio di vivere il mondo intensamente che mi porta ora a trovarmi in conflitto con diversi aspetti della vita qui.
So di poter andare a scalare regolarmente, viaggiando per circa quattro ore, che non sono poi così tante, ma mi manca il profumo del caffè che esce dalla moca di Francesco, sempre presente nelle pause dalla chiodatura, con sulle labbra ancora il sapore di terra e polvere di calcare e l’odore slamastro della magnesite sulle mani. Il rumore del mare, che rimbomba tra le insenature della roccia di Punta Campanella. Persino il sapore caldo e vegetale dell’avena bollita la mattina, che una volta trovavo immangiabile e dovevo guarnire con tonnellate di frutta secca, per poi abituarmi sempre di più al freddo umido di dicembre nella casa del Faito, e quelle gelide mattonelle sotto i piedi scalzi appena sveglio, che la facevano sembrare una manna dal cielo. La mangiavamo valorizzandone ogni boccone, ancora fumante, che appannava gli occhiali e scaldava la punta del naso.
Arrivare in falesia nel gelido sole invernale e trovare la roccia tiepida che lo convogliava alla base, permettendoci di stare in maglietta in uno scenario irreale.
E poi ogni tanto sgarrare di gusto, vedendo Carlo prendere a morsi le mozzarelle di bufala e bere litri di Canonau, ridendo, scherzando e raccontando storie irripetibili, con quel sapore che il cibo ha solo dopo una giornata faticosa in mare o in montagna.
Mi manca avere le mani rovinate dalla roccia, e per aver sbucciato le castagne con le unghie, e che il cibo abbia ogni giorno un sapore diverso.
Ma più di tutto mi manca quello spazio per le emozioni che solo la solitudine e la compagnia della roccia, del vento possono dare, e quella sensazione che nessuna emozione è troppo grande o fuori posto.
Non racconterò molto su questa esperienza, ma durante il giugno del 2019, mentre ero alla falesia del Monte Faito a provare un progetto, con nessuno se non mio zio Emilio, menre ero allongiato, lui rispose a telefono e dato il rapporto quasi simpbiotico che abbiamo raggiunto negli anni, dal suo tono di voce notai immediatamente che era successo qualcosa che lo aveva scosso profondamente.
Gli chiesi cosa fosse accaduto, ma lui mi disse di non preoccuparmi e di continuare a scalare.
Tuttavia, appena sceso insistetti e gli chiesi spiegazioni. Venni a sapere che una delle persone che per me aveva significato di più, che mi aveva aiutato ed era stato un amico e un mentore, si era tolto la vita.
Mi sentii stordito, non sapevo neanche come reagire. Era come se le emozioni fossero troppe anche solo per decidere da quale cominciare. Mi venne da vomitare. Non dissi nulla e mi andai a sedere su una roccia qualche metro più in là, esposta a Sud, verso il mare circondato dalle creste delle montagne.
Non so dire quanto tempo passò. So solo che lo passai in silenzio. Poi dissia Emilio di prepararsi a farmi sicura. Nient’altro. Scalai una via vicina al mio progetto e arrivai in cima con facilità, e in silenzio, facendo alcuni movimenti potenti per passare oltre il crux finale. Appena arrivai in catena mi fermai prima di passare la corda. Tacqui per un momento e poi, quasi senza rendermene conto emisi un urlo squassante e lungo.
In quel momento ero nell’unico posto che conoscevo che avrebbe potuto contenere le mie emozioni e potei viverle, io ritengo, quanto più genuinamente possibile, senza sentirmi a disagio nell’essere a contatto con me stesso.
Questo tipo di contatto ora lo considero come una condizione fondamentale, che voglio perseguire, e che qui in Olanda, come ho avuto modo di fare esperienza in altre occasioni, può facilmente mancare.

Alcune delle falesie e settori più belli nella Costiera Amalfitana:

Sentiero degli Dei
Monte Faito (Settori Antonino e Catiello)
Grotta Del Ciglio Alto
Falesia del Sentiero Degli Dei
Punta Campanella
Positano: Cannabis, Paretone, Montepertuso sono tra i miei preferiti, ma tutti i settori sono molto belli.
Capo D’Orso

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